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Autobiografia e selfismo

il racconto di sé nell’epoca della vulnerabilità pubblica

In principio fu l’autobiografia. Una forma nobile, spesso riservata a chi aveva qualcosa di “grande” da raccontare: una carriera memorabile, un’avventura straordinaria, una vita pubblica degna di essere tramandata. L’autobiografia nasceva come documento esistenziale, un bilancio destinato ai posteri, con l’obiettivo di restituire il senso di un percorso compiuto.

Poi è arrivato il selfismo (vedi anche l’ultimo blog prima di questo). E con lui, tutto è cambiato.

Non più solo una cronologia di eventi significativi, non più solo la testimonianza di chi ha fatto qualcosa di rilevante nel mondo. Il selfismo è un nuovo modo di raccontarsi, più intimo, più crudo, più autentico (o almeno desideroso di sembrarlo). È il racconto del sé che non ha bisogno di compiere grandi imprese per meritarsi la narrazione: gli basta esistere, sentire, cadere, sbagliare, sopravvivere.

Autobiografia: il racconto di una vita che “merita” di essere raccontata

Nel modello tradizionale, l’autobiografia è spesso un atto di sintesi. L’autore (o l’autrice) guarda indietro, sceglie gli episodi salienti, li organizza, li interpreta. C’è una costruzione razionale della memoria, una selezione dei momenti-chiave che hanno definito un’esistenza. Il tono è, in genere, solenne. A volte autocelebrativo, molto più spesso riflessivo e celebrativo, ha l’intento di lasciare un’eredità simbolica, culturale o morale.

Molte autobiografie sono state strumenti di auto-legittimazione o di difesa. Pensiamo ai Ricordi di Alfieri, ai Commentarii di Cesare, fino ai più recenti memoir politici o artistici.

Il protagonista racconta cosa ha fatto, quali ostacoli ha superato, quali valori ha seguito.

L’autobiografia classica, insomma, cerca di spiegare una vita nel mondo, come in alcune delle vite che stiamo raccontando nella collana “Biografie” di Wiseman, come l’affascinante racconto della vita di Elizabeth Keckley.

Selfismo: il racconto di una vita interiore

Il selfismo, invece, cambia tutto. Il centro non è più il fare, ma il sentire.

Non c’è più bisogno di un’impresa per giustificare la scrittura: basta un’esperienza, anche minima, purché vissuta in profondità. La forza del selfismo è tutta nella soggettività, nel punto di vista, nella vulnerabilità messa a nudo.

Il Foglio ha definito questa tendenza “narcisismo letterario”, ma il giudizio resta aperto. In realtà, il selfismo risponde a un bisogno nuovo: quello di connettersi emotivamente, non intellettualmente, con chi scrive.

Il lettore non cerca più solo modelli da seguire, ma specchi in cui riconoscersi.

In queste pagine iper-personali, a volte quasi diaristiche, si parla di ansia, dipendenze, lutti, crisi esistenziali, scelte sbagliate, sessualità, identità, solitudini. Temi che una volta erano relegati alla sfera privata e che oggi invece diventano materia narrativa. Senza vergogna. Senza filtri.

Perché vogliamo leggere l’anima, non solo le imprese

Cosa è successo? Perché oggi, invece del “cosa ha fatto”, ci interessa il “cosa ha provato”? Perché vogliamo sapere come si sente una persona quando fallisce, quando ama, quando non sa che direzione prendere?

La risposta ha radici profonde. In parte, è una reazione all’epoca della performance: in un mondo dove tutto è misurato, condiviso, ottimizzato, l’autenticità è diventata un valore raro e prezioso. La letteratura del sé si trasforma così in un luogo di verità emotiva.

Ma c’è un altro elemento fondamentale, che ha contribuito a questa trasformazione narrativa: il voyerismo culturale dei social.

Social e letteratura: l’effetto voyerismo

I social network hanno educato milioni di persone a osservare la vita altrui. Ogni giorno scorriamo storie, post, confessioni, liti e traguardi, corna e fidanzamenti. È una forma di intrattenimento continua, che ha abbattuto il muro tra pubblico e privato. E così, lentamente, si è affermata l’idea che anche il dettaglio più banale – un pasto, un attacco di panico, un ricordo d’infanzia – possa avere valore, se raccontato bene.

La letteratura ha assorbito questo sguardo: il lettore oggi vuole sentire che quella storia è vera, che quella voce è reale, anche quando è stilizzata o reinventata. E spesso cerca, nel racconto di un altro, un riflesso delle proprie inquietudini, delle proprie domande.

Leggere non è più solo un modo per evadere, ma per confrontarsi. Con chi scrive, e con se stessi.

Il lettore di oggi non cerca eroi. Cerca verità.

C’è qualcosa di profondamente umano in questo cambio di paradigma. Perché se è vero che un tempo cercavamo i giganti, oggi cerchiamo chi cade e si rialza. Se prima desideravamo modelli, oggi vogliamo compagnia. Non vogliamo più solo ammirare: vogliamo sentire. Capire. Condividere.

Il selfismo ci offre questo: un contatto diretto con l’umanità di chi scrive. A volte disturbante, a volte terapeutico, spesso emozionante. E anche se qualcuno lo accusa di egocentrismo o esibizionismo, è difficile negare quanto sia potente. Perché ci ricorda che la fragilità non è una debolezza, ma un ponte.

Una riflessione finale

Indipendentemente dalle intenzioni dello scrittore – che siano terapeutiche, narcisistiche o puramente narrative – e indipendentemente dal giudizio morale che possiamo avere sul voyerismo del lettore moderno, confrontarsi con le vite degli altri resta uno dei modi più profondi di arricchire la propria.

Osservare da vicino il successo, la caduta, la rinascita di qualcuno non ci rende spettatori passivi. Ci rende più consapevoli. Più empatici. Più capaci di affrontare, forse, anche le nostre stesse battaglie interiori.

Leggere gli altri è, in fondo, un modo per leggere anche se stessi.

E questo tipo di ricchezza – sottile, interiore, trasformativa – può darla solo la lettura. Meglio se dei libri di chi, come Wiseman, ha fatto delle biografie una intera collana.

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